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L' Impero alla fine della decadenza

La cattività dell Natività (il post-epifania)

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Se c'è una cosa che mi ha sempre messo un grande senso di tristezza sono gli addobbi natalizi accesi dopo il 6 Gennaio, quella pioggia di luce fuori dai negozi, gli alberi di natale con i rami puntati verso il basso, le stelle comete. Si, soprattutto le stelle comete, con quella loro dinamica staticità, quel senso di irrisolto (come fa ad avere una coda scintillante una stella immobile?), quel luccichio decaduto per la polvere e lo smog.

Ricordano, con una meccanica contraria, gli ombrelloni a settembre, quando "la stagione" è finita e solo pochi fortunati godono delle spiaggie deserte e del sole breve e meno aggressivo. Anche i supermercati sono pieni di bancali di panettoni non venduti, di dolciumi prossimi alla scadenza e, per questo, in saldo a tutti i costi, di pesce surgelato dalla dubbia provenienza, di spumante e bibitoni fatti con le bustine dell'idrolitina degli anni 80 (a proposito, devo ad uno speciale regalo di Natale di Luca la scoperta che l'idrolitina esiste ancora, si chiama Cristallina, ha lo stesso logo delle merendine kinder, infatti la produce la Ferrero, e rende l'acqua frizzante, salata e portatrice di calcoli renali, esattamente come qualche lustro fa).

Ho vagato tra quei bancali come un sopravvissuto ai bombardamenti su Berlino durante la guerra, non ho comprato dolci (per quello è bastato il fagotto di mia mamma) ma ho fatto una spesa ecosostenibile ed economicamente virtuosa. Mi sono sentito una brava massaia. Mia mamma sarebbe orgogliosa di me, ho pensato.

Le vacanze sono scivolate via velocemente, regalandomi, per la prima volta da molto tempo, qualche giornata di preziosissimo riposo. Il cuore non ha mai smesso di discutere con i suoi fantasmi, ma una specie di tempesta familiare, i chiarimenti e la rinnovata fiducia nel potere dei legami di sangue mi hanno conferito un ottimismo fanatico e decisamente salutare. La maggior parte delle famiglie si tengono in piedi in virtù di compromessi più o meno accettabili, di silenzi, di rinuncie e di piccoli, continui espedienti. Altre, come la mia, si reggono su una definita individualità dei propri membri e, proprio per questo, basano i propri rapporti su prinicipi di autentica, generosa, mutualità. Sento di non avere mai amato così intensamente la mia famiglia come in questi momenti e non c'è sentimento più bello che questo natale potesse regalarmi.

Celebro il mio personale album di famiglia con un racconto che Francesco Tarzia, uno scrittore e professore toscano, ha pubblicato qualche anno fa su una rivista letteraria, basandosi sul racconto drammatico di un giovane medico, mio padre, all'inizio della propria carriera. Il racconto si chiama, per l'appunto, "Il dramma di un giovane medico" (Calabria letteraria, n.10, 1994).

Roberto è adesso un medico affermato con uno studio modernissimo e attrezzatissimo. Ogni estate ci ritroviamo, assieme alle nostre famiglie, sulle spieggie di Soverato, sotto gli ombrelloni bianchi e blu dell'Ottagono: lui, la moglie e due figli; io, mia moglie e un piccolo Yorkshire tutto pelo e voce.
Si rinnova, ogni anno, la nostra amicizia, un sentimento di quelli che non dovrebbero avere mai fine, fatto di stima reciproca, di confronti culturali dopo i quali ognuno si sente un pochino più arricchito, di scambi, di esperienze di vita che, per lui come medico e per me come professore, sono infinite e varie. Manco a dirlo, tra le nostre consorti regna il miglior accordo e diverse sere ci troviamo tutti a folleggiare sulle padane da ballo di qualche locale notturno della zona.
Parlando delle nostre esperienze presenti e passate, quest'estate Roberto mi fa: "Tu che sai scrivere, dovresti saper rappresentare meglio di me una delle mie esperienze più drammatiche".
Solleticato dalla curiosità raccolgo l'invito: "Proviamo, raccontala!".
E Roberto comincia...

"Era il 1975 e io, laureato fresco fresco, avevo appena superato l'esame per l'esercizio alla professione e avevo impiantato l'ambulatorio nel mio paese che, allora, aveva poco più di 2000 abitanti, comprese le capre, come si suol dire. Il medico che c'era, era in età avanzata e difficilmente si muoveva da casa, per cui la mia possibile concorrenza non lo infastidiva, perchè sapeva che mi sarei trovato sul groppone tutti i pazienti che lui avrebbe scaricato volentieri, affidandoli alle mie amorevoli cure. Io, giovane ed entusiasta, leggevo ogni giorno il Giuramento di Esculapio, che faceva bella mostra di sè ben incorniciato nel mio studio, e mi vedevo nelle vesti di un angelo di salvezza per molti sofferenti.
Almeno un terzo degli abitanti era dislocato nelle campagne circostanti e i loro abituri non erano forniti di elettricità, di acqua potabile e di fognature.

Questo terzo di popolazione, per evitare di attendere due o tre giorni la visita del vecchio medico, col rischio di veder decollare l'anima del paziente verso il cielo, piano piano cominciò a rivolgersi a me, anche se con una certa riluttanza a causa della mia giovane età. Così cominciai a vedere materialmente molti di quei mali che avevo studiato in teoria, ma, soprattutto, cominciai a toccare con mano la sofferenza e le miserie che assilavano quella povera gente, che, dopo le prime diffidenze, si affidava a me completamente, più che al confessore, e che per sdebitarsi (parlare di onorario era un'ottimistica utopia) si toglieva di bocca il mangiare emi compensava con qualche pollo, una dozzina di uova, la soppressata. Qualche rara volta, in prossimità delle festività più importanti, pagava anche con denaro: lo toglieva, arrotolato e lercio, nei quali lo teneva annodato strettamente o da dentro certi portafogli maleodoranti.

Prima di darti quelle poche carte da mille lire, le palpava, le contava, le ricontava, le strusciava fra i polpastrelli, le guardava con dolore come se stesse per separarsi dal figlio prediletto: poi te le abbandonava tra le mani e se ne andava via con i lucciconi agli occhi. E ti lasciava con un immenso senso di colpa e con un vuoto alla bocca dello stomaco, come se glieli avessi rubati. Unghie incarnate, ferite di tutti i tipi, morsi d'animali e punture d'insetti, coliche, indigestioni, influenze, mal di fegato, ulcere, reumatismi, emorroidi, cardiopatie: mi andavo facendo una vasta casistica.

Solo che i miei poveri pazienti, anche a causa della scarsità d'acqua, non avevano ancora imparato a farsi un buon bagno prima di andare dal medico, per cui il bagno lo facevo io, almeno tre volte al giorno, per cercare di togliermi di dosso il selvaggiume trasmessomi dai miei pazienti. Il mio vecchio collega, che almeno agli inizi doveva averla passata peggio di quanto la stavo passando io, quando mi incontrava mi faceva un sorriso di sincera comprensione e mi diceva: "Allora, caro collega, come va? Hai visto quanto c'è da fare? Se posso esserti utile in qualche occasione non mi risparmiare!". Ed in effetti, certe volte, seduti al bar, tra una chiacchiera sulla politica locale ed una barzelletta allegra, parlavamo anche di casi particolari, scambiandoci le nostre opinioni.
Erano ancora tempi in cui fra colleghi ci si aiutava. La sera andavo a letto tardi perchè studiavo e dovevo riordinare le idee sui vari casi che avevo per le mani.

Eravamo giunti a Dicembre, alla festa dell'Immacolata, e una notte senti bussare all'uscio. Stanco com'ero mi ripromettevo di rimandare la sicura grana al giorno dopo ma... "Signor Dottore, perdonatemi se vi importuno a quest'ora della notte, ma dovreste venire urgentemente a casa, che c'è mia figlia Rosina che sta morendo per una colica. Si sta contorcendo dal dolore e noi non sappiamo cosa fare".

Di fronte a tanta disperazione non seppi dire di no. Mi rivesti, presi la valigetta, feci incetta di medicinali vari (tanto lo sapevo che mi sarebbe toccato dare un'occhiata agli altri membri della famiglia) e salii sul motocarro del mio clienti.
Dopo mezz'ora di scossoni e di sbatacchiamenti, in un buio che solo la sua conoscenza dei luoghi permetteva di violare, giungemmo in un rifugio rabberciato alla meglio, un pò in muratura, un pò in legno ed il resto in vecchie lamiere procacciate chissà dove. Entrammo in quell'unico ambiente dove si svolgeva la vita quotidiana notturna e diurna di tutta la famiglia (un pò come nei trulli pugliesi). Era tutto là dento: cucina, stanza da pranzo, stanza da letto, studio per i bambini che frequentavano la scuola. Come divisorio una coperta tarlata, che penzolava quasi fino a terra, appesa per lungo al soffitto.

Il cesso era un casotto sito all'esterno, vicino alla concimaia.
Entrato dentro vidi tutta la famiglia che mi aspettava: la moglie e tre maschietti dai tre ai dieci anni: Rosina era sdraiata sul letto e si lamentava. L'unica luce a disposizione, quella soffusa da tre puzzolenti lampade di latta ad olio con lo stoppino.

"Buonasera Filomena, cosa cosa ha la nostra Rosina? Fa i capricci?".
"Signor Dottore! Il signore vi benedica! La povera piccolina sta morendo per le coliche: è dalle dieci che grida! Le abbiamo dato la camomilla con un pò di papavero ma non le ha dato beneficio. Allora ci siamo decisi a chiamarvi!".
"Quanti anni ha la signorina?".
"Macchè signorina! E' una bambina! Deve ancora finire sedici anni"
"Beh, adesso la visitiamo, le diamo una bella medicina e così le passerà tutto".
Rosina si ribellò: "non voglio essere visitata. Non voglio che mi vedano i miei fratelli. Tra un pò mi passa, come l'altra volta".
"Allora no nè la prima volta? Facciamo così, Rosina: mettiamo la tenda in modo che i fratellini non ti vedano, così ti posso visitare".

Dopo un pò di tira e molla, Rosina acconsentì. Tirai giù la coperta tarlata e cominciai l'indagine. Come le alzai la veste logora e sporca per tastarle l'addome restai impietrito: mi trovavo davanti ad un pancione di una gravida di almeno sette mesi. Ma come non se n'erano accorti? Soprattutto la mamma?
Essendo alle prime armi, sperai di essermi sbagliato: chissà poteva darsi che si trattasse di un caso di idropsia! Non avendo avuto ancora esperienze di gravidanze e di parti, feci una visita accuratissima, ripetendo a mente tutta la sintomatologia che avevo studiato all'università. I segni rilevatori erano inconfondibili, soprattutto l'alone brunastro intorno ai capezzoli: non c'era alcun dubbio, Rosina era incinta! Allora con molta delicatezza la ricoprii e incominciai a interrogarla.

"Allora Rosina, dimmi la verità. Hai un fidanzato? Qualche ragazzo che ti viene dietro?".
"Che dite, signor dottore, tutto il giorno a lavorare!".
"Possibile che una bella ragazza come te non abbia ancora il fidanzato? Allora gli uomini di qua sono ciechi?".
"Ma che fidanzato e fidanzato! Io non ho nessuno, anzi, non fatevi sentire da papà che dite queste cose".
Allora fui costretto ad essere più esplicito: "Senti Rosina, a me non pui prendermi in giro: tu si incinta, gravida, aspetti un bambino! Qualcuno deve essere stato a farti questo servizio!".
"Ma che andate dicendo! Io non ho mai avuto rapporti con nessuno! Nessuno mi ha toccato! Chiamate la mamma!".
Tutto questo a bassissima voce! Dolo qualche altro diniego, alfine Rosina sbottò: "Io non so niente: Nicolino sa quello che ha fatto!".
"E chi è questo Nicola?".
"E' mio fratello il grande, ha 19 anni e fa il soldato. Ogni volta che viene in licenza mi fa fare certe cose perchè dice che le devo imparare".
Mi sentii crollare il mondo addosso! Come facevo adesso a spiegare a quei poveri genitori che avevano l'unica figlia gravida e per giunta per opera del fratello maggiore? Con la mentalità di quella gente c'era da scatenare una tragedia!
Come alzai la tenda, la povera madre era pronta con la catinella e il sapone per farmi lavare le mani: sul suo volto c'era un'ansiosa aria d'attesa fiduciosa!
"Allora, sigor dottore, non è niente? Le passerà presto?".
Mentre mi asciugavo le mani, mandai fuori con una scusa, e nonostante il freddo notturno, i tre fratellini perchè non sentissero; poi, cercando disperatamente le parole che credevo più adatte e più rassicuranti, con la maggiore delicatezza che riuscii ad esprimere, misi al corrente quei disgraziati genitori della situazione. In un primo tempo essi rimasero increduli ma, poi, l'evidenza dei fatti e la confessione di Rosina li fecero crollare. La madre scoppiò in lacrime; il padre s'impietrì e mi disse con voce che sembrava di ghiaccio: "Grazie signore dottore. Ora vi accompagno a casa visto che sarete stanco".

Durante il viaggio di ritorno, tra un sobbalzo e l'altro, cercai di spiegargli che non si poteva dare la colpa a nessuno e che erano cose che potevano capitare. Era come parlare con la notte: non spiccò parola.
La mattina, alle sette, era ancora buio e avevo fatto, si e no, tre ore di sonno, quando fui risvegliato dallo squillo disperato del campanello. Mi alzai inferocito e mi affacciai: "chi è a quest'ora?".
"Correte dottore, Rosina mia sta morendo!".
Senza pensarci due volte mi misi addosso quello che riuscii a trovare e, con la valigetta dei ferri ed il sacchetto dei medicinali, mi buttai nel motocarro che stava già mettendosi in moto. Invece della mezz'ora ci impiegammo venti minuti e fra le capocciate e le gomitate, venni a sapere che Rosina, alzatasi nella notte per andare al cesso, era caduta nel vicino fosso ed aveva abortito.

"Abbiamo chiamato subito la levatrice che ha tirato fuori il feto e voleva che fosse chiamato l'altro medico perchè Rosina perdeva sangue, ma io sono subito venuto a chiamare voi".
Come il motocarro si fermò, mi precipitai subito dentro e mi sembrò di vedere dal vivo una di quelle scene infernali illustrate da Gustavo Doré per la Divina Commedia: in una bacinella il feto morto e insanguinato; sul letto, Rosina, pallida come un cencio, con la mammana (levatrice) che continuava a cambiarle panni insanguinati.

La mamma piangeva silenziosamente dondolando la testa e strappandosi i capelli, e i tre fratellini atterriti, abbracciati insieme, stretti in un angolo. Presi subito in mano la situazione: con l'aiuto della levatrice visitai la povera Rosina: sembrava le fosse passato sopra un trattore; non c'era parte del corpo che non presentasse ferite.
Era davvero caduta nel fosso? Anche lei lo giurò e lo spergiurò ed io non ebbi il coraggio di andare più a fondo. Feci quanto era nelle mie possibilità poi convinsi i gentori a fare denuncia dell'accaduto e provvidi a fare ricoverare Rosina in ospedale.

Dopo l'Epifania vennero a trovarmi Rosina col padre. Rosina si era rimessa abbastanza bene ora era ben vestita e figurava meglio, ma era ancora pallida e smagrita.
"Signore dottore, Rosina è voluta personalmente venire a ringraziarvi per quanto avete fatto quando ha avuto quella colica (e calcò forte sulla parola colica) ed ha voluto portarvi questo regalo". E mi porse una busta tutta unta di ditate e quattro caciocavalli. Strizzandomi l'occhio: "sono le provole che facciamo per noi".
Poi aggiunse gravemente: "Nicolino non può più tornare a casa perchè ha trovato lavoro in Svizzera e appena finisce di fare il militare si trasferisce subito là".

Francesco Tarzia è morto qualche anno fa. Era una persona profonda e straordinariamente simpatica per cui sono sicuro che mi perdonerà se mi sono preso la libertà di tradurre in italiano tutte le frasi originariamente scritte in dialetto.