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L' Impero alla fine della decadenza

Tra il caldo e il disincanto

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Sono reduce da 4 giorni passati in Abruzzo, sul mare e con un caldo che non ha avuto nulla da invidiare a quello di Agosto. Non è stata proprio una vacanza, visto che ci sono stato per lavoro (un congresso, per l'esattezza), ma ho ugualmente assaggiato un pò d'estate e ho passato, malgrado il lavoro piuttosto denso, delle ottime giornate. Mi ha fatto bene la separazione, anche se per poco, da Roma perché ho avuto modo di caricare le batterie di quella parte di cervello che si chiama "creatività" e sono riuscito a riconquistare il controllo dell'immanente, della quotidianità.


Ieri sono andato a vedere il concerto dei Marlene Kuntz, per l'ennesima volta, a FIESTA, qui a Roma. Ero stanchissimo ma ho accettato ugualmente la proposta di chi mi c'ha portato perché avevo una senile voglia di vedere gente (tipo i vecchietti che si siedono sulle panchine con l'esclusiva intenzione di guardare la gente che passa). Come avevo facilmente preventivato il posto era pienissimo ma la zone del concerto relativamente calma, sicché siamo riusciti ad assistere abbastanza agevolmente alla performance dei Marlene. Devo essere sincero: m'aspettavo il tradizionale repertorio, i soliti immancabili pezzi, la solita scaletta. Così non è stato, o forse è stato solo in parte, perché il gruppo è stato capace di conquistare la platea con alcune canzoni meno note, suonate, c'era d'aspettarselo, con la classica irruenza e interpretate, con straordinaria genialità, da Godano. Un plauso, insomma, ai Marlene per essere stati capaci di rischiare nel proporre un repertorio insolito e per aver rinunciato a molti dei loro pezzi più famosi.
Mi sono dilungato molto sul concerto dei Marlene perché, tra i pezzi che hanno suonato, ce n'è stato uno che ha letteralmente sfondato il tetto delle stanze segrete della mia intimità. Questo deriva da una cosa che sono convinto capiti a tutti: ci sono dei pezzi che si associano a dei particolari momenti che si sono vissuti, perché magari li si ascoltava in quel periodo o perché, più finemente, se ne è interiorizzato il testo ("la poesia non è di chi la fa ma di chi la usa"). Sono arrivato a casa e non ho resistito alla tentazione, ho acceso il computer, ho fatto partire il pezzo e mi sono messo alla facile ricerca di una cartella che, guarda caso, ho chiamato "passato". Era un bel pò di tempo che non piangevo e mi è capitato ieri, di fronte ad una immagine digitale e con una canzone nelle orecchie. Ho pianto cercando di fare minore rumore possibile, quasi con discrezione, come se potessi infastidire qualcuno, ed ho pianto tanto, decisamente tanto. Non è stato un sfogo, non c'è stato il minimo segno che indicasse nervosismo. Ho pianto il disincanto, ho pianto le cose che, malgrado il tempo, le situazioni e le emozioni, non vogliono proprio scivolarmi addosso. Ho pianto per quello che mi manca come l'aria che respiro. Il disincanto, semplicemente il disincanto. Non so per quanto tempo, di preciso, ho convissuto con le lacrime ma è stato per un pò, quel tanto che è bastato a confermarmi che sono il solito illuso coglione di sempre.
"Eri malata, o ape regina divina e dorata, perdono io ti chiederei ma non ci sei più e in queste stanze si urla, e un tonfo scuce la pelle, glaciale un brivido sale dal basso, scompaio, non ci son più, non ci sei più, non ci son più, non ci sei più, nonciseipiù..."