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L' Impero alla fine della decadenza

Cielo Grigio Pioggia

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Sono uscito da pochi minuti e ho ancora nelle orecchie il rumore profondo del portone che si chiude alle mie spalle. Nemmeno il tempo di attraversare la strada che inizia a cadere una pioggia leggera, quasi impercettibile. L'avevo previsto ma ho deciso ugualmente di non portare l'ombrello, perchè il bar è vicino e nutro una sensibile e patologica gelosia nei confronti del mio parapioggia. Non mi piace lasciarlo provvisorio e instabile all'ingresso di locali affollati e, soprattutto, non mi piace infilarlo nel portaombrelli, dove farei fatica a riconoscerlo e dove subirei l'imbarazzo pubblico nel doverlo cercare, con il rischio di prendere quello sbagliato e dover giustificare il mio non essere ladro. Chi ha subito un furto d'ombrello passa le giornate di pioggia ad osservare gli ombrelli degli altri. E' una mia convinzione. 
 
L'Italia è un paese dove la stragrande maggioranza delle persone non ama fare le cose da sola. Roma ancora di più e la colazione è un momento obbligato di socialità caotica e senza dignita. Il bar, che è anche una pasticceria, è pieno zeppo di gente e c'è una confusione da girone dell'inferno. Avrei voluto sedermi e magari scambiare con un avventore occasionale il più superficiale dei punti di vista. Niente di tutto questo: non c'è nemmeno un tavolo libero e sono costretto a fare colazione tra braccia che si affannano a recuperare bustine di zucchero e scontrini tenuti tra 2 dita pronti ad essere strappati, mentre dietro di me incombono minacciosi gli individui che mi seguivano alla cassa, con i loro figli e i loro vecchi al seguito. Non ho nessuna arma per oppormi a tre generazioni al completo che si confrontano con l'esigenza primigenia del primo cibo della giornata. Mangio e bevo velocemente guardando in cagnesco soltanto le generazioni più vecchie perchè capisco i genitori, giustifico i figli ma non ho nessuna pietà per le persone anziane che fanno colazione al bar la domenica mattina. Dovrebbero essere altrove, magari a messa, magari a preparare il pranzo della domenica per le loro sciagurate discendenze. E invece sono lì, a rendere vano ogni tentativo di costruire un brandello di serenità domenicale. 
 
Lascio il bar e trovo ad aspettarmi la pioggia. Cammino lentamente e mi faccio commuovere dalle piccole gocce che cadono dal cielo. A casa reprimo l'igienico e patologico instinto di lavarmi subito i denti e mi concentro, dalla finestra del salotto, sul piombo del cielo. E' indifinito questo colore, come lo sono le sensazioni che mi attraversano, che rendono vago e approssimativo ogni tentativo di autogoverno emotivo.
Rifletto sulla parole di Francesca di ieri notte, sulla definizione di uomo "spezzato". Gli uomini spezzati - più o meno parafrasando Francesca - hanno il cuore che ad un certo punto si è sgretolato in una miriade di piccoli pezzi e trascorrono intervalli significativi della propria esistenza nel tentativo di recuperare tutti i frammenti e di rimetterli a posto, sfruttando il tempo, che dovrebbe funzionare da colla, e provando a modificare le abitudini, almeno quelle superficiali, per controbilanciare lo scarroccio dei moti d'orgoglio e d'amor proprio. 
In questo commovente e patetetico tentativo di restauro, gli uomini spezzati perdono contatto con il reale e si concentrano sul codificare le lancette del tempo attraverso la non fluidità dell'opportunità, comprimendosi sulle interpolazioni occasionali, decifrando la quotidianità attraverso il canovaccio di fotografie sfocate scattate con la polaroid. Apatici istanti non replicabili e talmente divergenti da rendere praticamente impossibile un'intuizione univoca.
 
Un cuore spezzato è un potentissimo generatore di caos emotivo, è il terrore stupefacente delle parole taciute, delle sensazioni fuori luogo, della minaccia dello scorrere troppo veloce degli anni migliori. E'ricacciare con tutte le forze la compressione dell'omologazione e, di contro, un'ambizione sfrenata alle suggestioni socialmente diffuse. L'affannarsi per trasferire dignità emozionale ai gesti più insignificanti nella perpetua ricerca di contatto: gli abbracci, le carezze, le parole sussurrate.  
Un'ostentata e a tratti perfino elegante maliconia generata dal terrore primordiale di perdere tutte quelle emozioni che inevitabilmente ci sopravviveranno.
Mi ricordo con matematica precisione l'ultima volta che ho provato un'emozione autentica. E' passato troppo tempo e mi sento ormai in diritto di celebrarne i ricordi con religiosa iconoclastia. Mai come in questi tempi gli Dei dell'Incompiuto mi sono stati favorevoli. La restaurazione è un atto di fede a cui sono incapace di sottrarmi. La ricerca incessante di risposte rivoluzionarie a domande che rimarranno sempre sbagliate.
 

Le cose che mancano

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nonni

Qualche notte fa ho sognato mia nonna. Si è fatta beffe del mio misticismo da 4 soldi, mi ha stretto forte le mani e ha fatto quello che da viva le avevo sempre chiesto ogni volta che mi raccontava di aver sognato mio nonno. Dalla poltrona cui era solita sedersi mi ha sussurrato dei numeri da giocare, comprese le date e le ruote su cui puntare. Io l'ho ascoltata con la consapevolezza di stare vivendo un sogno, mi continuavo a ripetere i numeri e mi dicevo "non li devo dimenticare, non li devo dimenticare". Niente! Da 3 sono diventati 2, poi uno solo, poi nulla. I numeri non sono sopravvissuti al risveglio e sono evaporati alle prime luci del giorno. 

Anni di training nell'attesa che arrivasse questo momento e, al dunque, ho fatto la fine dei tanti che mi raccontavano di aver sognato parenti che dispensano numeri. Nemmeno un block notes e una penna sul comodino avrebbero potuto impedire quest'ecatombe della funzione mnemonica: un fallimento totale.
Al di là di questa mancata occasione, tuttavia, mi è rimasta la grande gioia di aver rivisto nonna e di averla trovata in grandissima forma, come ai tempi in cui vivevamo insieme e condividevamo un universo di cose divertenti e kafkiane, di cui non posso proprio non provare nostalgia.

Le cose che mancano hanno il rumore dell'acqua che bolle e il profumo dell'infuso nelle tazze da thè, hanno la luce delle serate d'inverno, quando fuori piove, fa freddo e il cielo fa rumore. Hanno mille nomi di bambini, l'ambizione dei progetti più arditi, gli aerei che ti portano ovunque, gli itinerari turistici, le linee bianche sull'asfalto dell'autostrada. Le cose che mancano hanno il giallo dei post-it sulla porta, sono scale logorroiche, discussioni e silenzi, sperimentazioni culinarie e deliziosi vini bianchi. Le cose che mancano hanno l'ozio della domenica, il profumo di caffè appena svegli, le pedagogia metallica di Evelyn, i finali dei film senza titoli di coda. Sono scuse per festeggiare ricorrenze, pieghe su pagine di libri mai finiti. Sono 3 ciao ripetuti fino allo sfinimento, deliri da febbre a 39, ipocondrie da raccontare, mani che si cercano nel sonno.

Le cose che mancano certe volte mancano un pò di più. Scendono fino allo stomaco, affrontano spavaldamente tutti gli enantiomeri dell'omeprazolo e ti lasciano svuotato e disilluso. Ultimo avamposto ai confini del deserto del disincanto.

Le cose che mancano le conosco a memoria, le ho scritte su un foglio e poi le ho cancellate.

La rovescia dei conti

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Myrtos

Più frequentemente degli scrittori italiani, gli autori statunitensi sono soliti ringraziare il loro editore all'inizio o alla fine del libro, raccontando spesso aneddoti o situzioni specifiche in cui il supporto dell'editore è stato fondamentale per completare l'opera o per superare uno specifico momento di difficoltà. Mi è venuto in mente oggi, mentre affrontavo l'ennesima coda da bollino rosso per il mio rientro dalla Calabria e guardavo il sole scivolare dietro le montagne, mentre cercava di divincolarsi dalla morsa di due nuvole minacciose e cariche di pioggia. Mi sono venute in mente le parole di Chicca, una mia amica che nella vita fa l'editor per davvero, che qualche giorno fà, prima ancora che della mia vita privata, mi chiedeva notizie del sito. Chicca è una di quelle che vorrebbe che io diventassi uno scrittore autentico, che mi dedicassi assiduamente alla scrittura creativa. Io la immagino mentre mi corregge le bozze e mi da i suggerimenti su come procedere, mentre ascolta le mie paranoie e mi manda cibo precotto per non farmi morire di fame.

La cattività dell Natività (il post-epifania)

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Se c'è una cosa che mi ha sempre messo un grande senso di tristezza sono gli addobbi natalizi accesi dopo il 6 Gennaio, quella pioggia di luce fuori dai negozi, gli alberi di natale con i rami puntati verso il basso, le stelle comete. Si, soprattutto le stelle comete, con quella loro dinamica staticità, quel senso di irrisolto (come fa ad avere una coda scintillante una stella immobile?), quel luccichio decaduto per la polvere e lo smog.

Ricordano, con una meccanica contraria, gli ombrelloni a settembre, quando "la stagione" è finita e solo pochi fortunati godono delle spiaggie deserte e del sole breve e meno aggressivo. Anche i supermercati sono pieni di bancali di panettoni non venduti, di dolciumi prossimi alla scadenza e, per questo, in saldo a tutti i costi, di pesce surgelato dalla dubbia provenienza, di spumante e bibitoni fatti con le bustine dell'idrolitina degli anni 80 (a proposito, devo ad uno speciale regalo di Natale di Luca la scoperta che l'idrolitina esiste ancora, si chiama Cristallina, ha lo stesso logo delle merendine kinder, infatti la produce la Ferrero, e rende l'acqua frizzante, salata e portatrice di calcoli renali, esattamente come qualche lustro fa).